Gamification: apprendere attraverso l’esperienza visiva nel gioco
Uno dei possibili output creativi attraverso cui il pensiero visuale si esplicita è quello della facilitazione. Tuttavia, uno degli errori più comuni è quello di far coincidere la definizione di “gamification” con quella di “teambuilding”.
In che modo la facilitazione riesce a mettere insieme l’umano, il gioco e, allo stesso tempo, la dimensione visuale?
Il territorio di applicazione del “gioco” è molto vasto: sconfina con la realtà. Realtà, gioco e pensiero si fondono sullo stesso playground. Ma game e play non sono la stessa cosa. Qualsiasi attività può essere etichettata come gioco, ma la pratica del “giocare” implica una finalizzazione: nel momento in cui vengono innescate le basi per un cambiamento, un gioco acquisisce uno scopo. Giocare può essere il motore di una trasformazione e, in questo senso, la forza dinamica dell’immaginazione dà una potenza in più alla pratica quotidiana.
Ma perché proprio attraverso il “gioco”?
I giochi fanno parte delle attività utilizzate dagli esseri umani per memorizzare; giocare può rappresentare un ribaltamento di prospettive rispetto alla quotidianità. Come i romanzi ci fanno sperimentare vite che non abbiamo vissuto, così i giochi ci immergono in forme di realtà che forse non avremmo mai scoperto da soli.
Di base, per l’elaborazione di un gioco funzionale, è sufficiente settare degli obiettivi, mettere in gioco delle abilità e dare vita a un ambiente. Questi tre elementi, in gradienti diversi e in differenti combinazioni, possono animare qualsiasi scenario.
Uno degli aspetti più importanti per la riuscita del gioco è proprio lo scenario. Ci sentiamo sicuri se lo riconosciamo come esplicitamente di fantasia.
Si tratta di una cornice metaforica che utilizza concetti e immagini figurative per descrivere l’organizzazione di un’azienda o ente. Ad esempio, prendendo in prestito le nostre metafore, il mondo dei supereroi, dove gli impiegati diventano parte integrante di questa realtà con le loro azioni quotidiane. Oppure il mondo del graffitismo, o qualsiasi altro scenario che possa suscitare la nostra attenzione e, allo stesso tempo, influenzare la cultura aziendale, la leadership e le strategie decisionali, poiché modellano la percezione e l’interpretazione dei membri dell’organizzazione, rispetto a ciò che fanno e come lo fanno.
Mentre sotto l’etichetta di “teambuilding” transitano una serie di attività a cui l’immaginazione visiva si associa relativamente e prevale, piuttosto, il valore associativo di queste pratiche.
Calarsi in un gioco può essere meraviglioso, intenso e coinvolgente: è questa la forza in più di comunicare attraverso un’esperienza, ma la condizione necessaria per cui questo processo può funzionare è il patto di lasciarsi trascinare, prima ancora che vengano stilate le regole del gioco o uno scopo.
Per raggiungere lo stato di coinvolgimento desiderato, lasciamo che la finzione occupi la nostra coscienza per un po’ ed è proprio questo fatto che rende i giochi vicini alla forma d’arte. Si intende, come nell’arte cerchiamo qualcosa che ci sconvolga (cosa che non facciamo abitualmente nella vita reale), così nel gioco ricerchiamo ciò che normalmente eviteremmo: il fallimento. I giochi sono uniti all’arte attraverso questo paradosso.
Un gioco è tanto più prezioso quanto ci dà la possibilità di cadere in sicurezza e prospettare scenari che altrimenti ci sarebbero preclusi. Questo concetto è antichissimo, basti pensare agli uomini primitivi che si riunivano in gruppo per cacciare o per altre attività, decidendo di competere solo per il gusto di farlo e per tenersi coinvolti.
“Gamification” è l’arte di imbrigliare il divertimento e dirigerlo in maniera funzionale verso attività reali e produttive. Oggi il nostro obiettivo non è più cacciare per sopravvivere o raccogliere frutti nel modo più veloce possibile – anche se possiamo imparare molte altre doti che ci accomunano a un qualsiasi troglodita –, ma affinare delle abilità individuali e di gruppo che ottimizzino il nostro lavoro.
Il sistema è semplice come lo è sempre stato, a cambiare è quanto sono “sofisticati” gli obiettivi che vogliamo raggiungere. Giocare può essere un modo per prendersi del tempo e ottenere comunque risultati tramite il pensiero creativo. Anche se lo stato finale in cui arrivare può anche essere incerto, bisogna che abbiamo chiaro da dove partiamo.
Da un punto A arriveremo ad un punto B: nel mezzo ci sono una serie di attività forse persino ripetitive, che hanno il compito di mantenerci ingaggiati. Purché venga mantenuta la promessa base del gioco, ovvero di aprirsi a tutto ciò che questo può portare. Proprio attraverso la ripetizione si attiva una “pratica” (come diceva il buon Aristotele): diversamente dalle pratiche abituali, un’attività di facilitazione non vuole raggiungere un obiettivo velocemente. Assume maggiore importanza il percorso.
Qui si vede la bravura del facilitatore. Tanto più sarà abile ad innescare un processo di cambiamento e immedesimazione, ad accendere la scintilla, il fuoco per l’effettiva mobilitazione dei candidati, tanto più potrà dirsi riuscita l’attività ed aver gettato effettivamente le basi per il raggiungimento degli obiettivi.
If you want to know more:
Y.-K. Chou, Actionable gamification, Milpitas, Octalysis Media, 2019.
S. Fioretti, Il valore educativo del gioco. Gamification e game based learning nei contesti educativi, Milano, FrancoAngeli, 2023.
D. Gray, S. Brown, J. Macanufo, Gamestorming, Palermo, Flaco Edizioni, 2021.
M. Thibault, Gamification urbana. Letture e riscritture ludiche degli spazi cittadini, Ariccia, Aracne, 2016.
C. Thi Nguyen, Giocare è un’arte, Torino, Add Editore, 2020.
©Illustrations by Lionel Cotromino